sabato 7 gennaio 2012

Voglio morire

Non spaventatevi, non è una mia richiesta, ma una analisi semio-filosofica di questo termine che troppo spesso si sente dire ( o scrivere) ma che troppe poche volte se ne comprende il vero significato.
Parlare di morte è parlare della vita, questo l'ho sempre pensato, e non significa affatto essere persone lugubri o noiose, ma, da appassionato di filosofia, mi piace sviscerare ciò che una frase, un fenomeno, un pensiero ha nel contesto sociale.
Quando si afferma che si desidera morire troppo spesso chi ascolta si allontana, quasi esorcizzando l'atto e, quasi sempre, il soggetto affermante viene lasciato solo.
La società con i suoi mezzi comunicativi inizia a volte prendersi cura di questa affermazione elaborando teorie, generalmente due di opposto contenuto, iniziando la diatriba sulle validità di una o dell'altra, lasciando, anche qui, solo, il soggetto con la sua richiesta e anche l'oggetto. Vedi caso Welby e Eluana Englaro.

Una curiosità che lascio però ai sociologi spiegare: perchè proprio i due casi che ho menzionato prima, ecclatanti e che hanno avuto molta eco fra la gente, la cui richiesta di morte non è arrivata dal soggetto ma da dei " loro portavoce" sono stati presi in considerazione dai media, mentre altri casi, la cui domanda è stata posta dall'interessato, non hanno avuto lo stesso seguito?

Il problema ha una duplice veste: quello puramente semiotico e quello di carattere etico. Dal primo punto di vista c'è una difficoltà di una richiesta di morte perchè chi richiede di morire generalmente afferma la sua soggettività e al tempo stesso la nega. La afferma poichè la richiesta è fatta in prima persona e destabilizza l'ascoltatore il quale si rifugia nella sua impotenza.
Ogni parola mira ad essere ascoltata

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